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Cassazione nr.4984/14: Licenziato il dipendente che utilizza illecitamente i permessi ex art.33 legge104

Mag 24, 2016 admin 0 notizie

ricostruzione dinamicaIl lavoratore che utilizza in modo illecito i permessi ex art. 33 della legge 104 per fini del tutto estranei a quelli previsti dalla norma, ad esempio per andare in vacanza o per attività personali, anziché assistere il familiare, può essere legittimamente licenziato, a nulla rilevando che il fatto illecito sia emerso a seguito del controllo di un’agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro.

Lo ha deciso la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4984 del 4 marzo 2014, rigettando il ricorso del lavoratore che riteneva che, ai fini del licenziamento disciplinare, il pedinamento effettuato dall’azienda fosse in violazione dello Statuto dei lavoratori (Legge n. 300/70).

Precisa la Corte che la legge 300/70 delimita, a tutela della libertà e dignità del lavoratore, la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi solo per scopi di tutela del patrimonio aziendale e di vigilanza dell’attività lavorativa, ma non preclude il potere dell’imprenditore di avvalersi di soggetti diversi, come nel caso di specie, di un’agenzia investigativa, per accertare i comportamenti illeciti del lavoratore, non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione.

Nel caso in esame il controllo era finalizzato all’accertamento dell’utilizzo improprio dei permessi ex art. 33 L. 104/92 (suscettibile di rilevanza anche penale) e non ha riguardato l’adempimento della prestazione lavorativa essendo stato effettuato al di fuori dell’orario di lavoro, ed è quindi da ritenersi conforme ai principi sanciti in materia ed in linea con gli orientamenti giurisprudenziali della stessa Corte.

Non può negarsi la natura illecita dell’abuso del diritto ai benefici della legge 104/92, sia ai danni dell’Inps che erogava l’indennità per i giorni di permesso, sia ai danni del datore di lavoro, tale da integrare una condotta idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo di fiducia posto a fondamento del rapporto di lavoro.

LEGGI LA SENTENZA:

 

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 marzo 2014, n. 4984

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza del 30.12.2010, la Corte di appello di Milano, in riforma della decisione impugnata, respingeva le domande proposte da N.D. intese alla declaratoria di invalidità del licenziamento intimato al predetto dall’A. s.p.a. il 30.4.2008 ed alla condanna di quest’ultima alla reintegrazione nel posto di lavoro, disposta dal Tribunale, sul presupposto dell’illegittimità del controllo operato dalla società   ai   fini dell’accertamento del   fatto   poi   contestato   in sede   disciplinare e ella conseguente inutilizzabilità della   prova, in assenza  di un illecito che  giustificasse l’attività investigativa. La Corte del merito osservava che la contestazione disciplinare verteva sull’illecito utilizzo di un permesso ex art. 33 I. 104/92 per fini del tutto estranei a quelli previsti dalla legge, tenuto conto della gravità del contegno del Nulli alla luce della qualifica direttiva posseduta, e rilevava che i fatti non erano stati contestati, essendone stata negata solo la rilevanza disciplinare nonché la liceità delle metodologie di accertamento. Pur convenendo con il primo giudice sul fatto che il controllo a  mezzo   di  agenzia     investigativa   fosse  consentito   solo se        indispensabile    per l’accertamento di un illecito e se privo di alternative, osservava la Corte che, tuttavia, non poteva negarsi la           natura     illecita         dell’abuso      del diritto   di cui    all’art.     33 I.      104/92      citata, anto ai   danni dell’INPS che erogava l’indennità relativa ai giorni di permesso, sia ai danni del datore di lavoro a cui carico restavano per   tali giornate l’accantonamento per il t.f.r.   ed i disagi per fare fronte  all’assenza. Peraltro, per giustificare il ricorso al controllo occulto “difensivo” era sufficiente che vi fosse il ragionevole sospetto che il lavoratore tenesse comportamenti illeciti e che non vi fosse la  finalità di ampliare l’oggetto della contestazione disciplinare. I testimoni escussi avevano riferito che il Nulli in due occasioni, alla loro presenza, aveva dichiarato di avere trascorso una vacanza in week end lungo e che, in quanto svolgenti compiti attinenti al rilascio di permessi, essi erano al corrente che in quei giorni il N. era in permesso per la legge 104. Era, dunque, al cospetto di tali dichiarazioni, ragionevole il sospetto da parte dell’azienda che i permessi non fossero utilizzati per l’assistenza alla madre e quindi          doveva          ritenersi     giustificato    il          controllo difensivo     occulto per l’accertamento dell’illecito. Dalla liceità dell’accertamento difensivo conseguiva, pertanto, secondo il giudice del   gravame,   l’utilizzabilità in giudizio degli esiti dello stesso,   non essendo stata contestata   la   veridicità   dei   fatti,   la   cui   gravità   era   connessa non   solo   all’allontanamento temporaneo dall’abitazione materna, ma al fatto che il N., nel giorno di permesso chiesto per il venerdì 11 aprile 2008, alle 7,55 fosse partito con amici e valigia mettendo tra sé e la finalità di assistenza del permesso una distanza ed una previsione di rientro non prossimo, che rendevano evidente come lo stesso fosse stato utilizzato per altre finalità che la legge garantiva con l’istituto delle ferie. La Corte territoriale considerava, poi, la posizione del N. all’interno dell’azienda, quadro del Servizio Legale, e le competenze specifiche di laureato in giurisprudenza, che escludevano ogni possibilità di errore circa la finalità dei permessi e creavano un specifico pericolo di discredito dell’organizzazione aziendale     ove  gli   altri lavoratori  fossero   venuti a   conoscenza   di    week   end allungati dal permesso per assistenza alla madre. L’abuso del diritto veniva, pertanto, ritenuto tale da   integrare   una condotta   idonea a   ledere   irrimediabilmente il   vincolo di   fiducia posto   a fondamento del rapporto di lavoro.

Per la cassazione di tale decisione ricorre il N., affidando l’impugnazione a cinque motivi, illustrati nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Resiste, con controricorso l’A. s.p.a, che espone ulteriormente le proprie difese nella memoria illustrativa.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo, il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3 ed 8 I. 300/70, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., osservando che il controllo dell’ agenzia investigativa non può   riguardare   in   nessun   caso né l’adempimento,  né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale di prestare la propria opera, essendo l’inadempimento stesso  riconducibile, come l’adempimento, alla attività lavorativa, che è sottratta alla vigilanza altrui, ma deve limitarsi agli atti illeciti del   lavoratore   non riconducibili al         mero   inadempimento dell’obbligazione     contrattuale prospettata. Secondo il ricorrente, appare, quindi, violativo degli artt. 2 e 3 Statuto avere ritenuto legittimi   i   pedinamenti che   hanno    determinato  la   contestazione        disciplinare prodromica    al licenziamento, in quanto certamente non finalizzati a rilevare illeciti   a danno del patrimonio aziendale, attenendo, invece, all’adempimento dell’obbligazione di fornire la propria prestazione lavorativa a fronte della percezione della retribuzione. Occorreva      che   i       controlli occulti fossero disposti contro attività fraudolente o penalmente       rilevanti,     laddove  la Corte del merito aveva introdotto il tema dell’abuso del diritto che esulava completamente dall’interpretazione delle norme citate dello Statuto, collegando a tale ipotesi di abuso la possibilità di controllo difensivo occulto e scardinando la consolidata acquisizione interpretativa che ritiene legittima tale forma di controllo solo ove finalizzata alla tutela del patrimonio aziendale, ovvero alla verifica di comportamenti delittuosi del lavoratore. Assume il ricorrente che, se l’esercizio di un diritto potestativo in caso di sviamento della sua propria funzione può rifluire nell’abuso del diritto stesso, il controllo verte sulle modalità di esercizio di un diritto, non finalizzato assolutamente a quei soli scopi che legittimano i controlli occulti. Peraltro, la fattispecie, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello, non avrebbe integrato l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 640, comma 2, n. 1, c.p., in assenza di ogni artificio o raggiro posto in essere dal suo autore.

Con il secondo motivo, il N. lamenta violazione dell’art. 342 c.p.c. e del d. Ig.vo 30.6.2003, n. 196, e deduce la nullità  della sentenza,  ex  art. 156 e 161   c.p.c., ai sensi  dell’art.    360,   n. 4            c.p.c., rilevando come la Corte territoriale abbia completamente omesso di considerare la circostanza, evidenziata dal giudice di primo grado, dell’autorizzazione al trattamento dei dati sensibili da parte degli investigatori privati laddove l’A. non aveva mai riferito alcunché a proposito dell’esistenza dell’atto di  incarico   e che   ciò    doveva    indurre   la    Corte a dichiarare                     l’inammissibilità dell’impugnazione  ex   art. 342 c.p.c.. Ed     invero,  era richiesta    la  conformità     dell’incarico    alle autorizzazioni del garante, conformità che  costituiva presupposto    indispensabile ai fini della legittimità dell’investigazione e della legittimità del controllo e quindi della contestazione (in tale senso era   la   pronuncia del   Tribunale). Poiché la   inesistenza di   un incarico conforme alle disposizioni del Garante non era controverso, non era invocabile l’art. 360, n. 5, c.p.c., atteso che la totale mancanza di motivazione sul punto determinava la nullità della sentenza, deducibile ai sensi dell’ art. 360, n. 4, c.p.c..

Con il terzo motivo, viene dedotta l’insufficienza e contraddittorietà della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360, n. 5, c.p.c. e la violazione degli artt. 246, 416, 3° comma, 257 c.p.c. e dei principi in ordine alla testimonianza de relato, assumendo il N. che non vi sarebbe stata la prova del ragionevole sospetto che avrebbe legittimato il ricorso ad un controllo occulto, ma che, in base al tenore delle testimonianze di F. e V., doveva ritenersi che il preteso viaggio fosse proprio quello di cui al pedinamento e che la fonte fosse stata proprio l’Agenzia

Investigativa, sicché la circostanza della vacanza riferita dal N. alla persona addetta alla segreteria costituiva dichiarazione priva di significato univoco, potendo la vacanza essersi realizzata in giorni estranei al permesso. Aggiunge, quale ulteriore considerazione a fondamento dell’impugnazione, che neanche sarebbe dato comprendere, alla luce dei risultati dell’investigazione, in quale data sarebbe stato effettuato il viaggio in Svizzera al quale si sarebbe riferito il N. conversando con le segretarie e la ragione per cui il predetto si sia indotto a confidare proprio alle stesse l’uso improprio del permesso ai sensi della legge 104. Peraltro, il M., firmatario della contestazione, aveva un interesse in causa che avrebbe potuto giustificare un suo intervento adesivo, atteso che, in caso di definitivo accertamento dell’illegittimità del licenziamento, l’A. avrebbe potuto rivalersi su di lui. La mancanza di motivazione sull’attendibilità del teste, una volta ritenuta la sua capacità a deporre, si traduceva, poi, in un vizio censurabile ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., ed anche la F. e la V. non potevano essere considerate testi di riferimento. Infine, si assume che il G., indicato de relato dal M., rappresentando l’A., non era persona estranea alla controversia, per cui non era possibile acquisirne la deposizione.

Con il quarto motivo, il N. deduce la nullità della sentenza ai sensi degli artt. 156 e 161 c.p.c., ex art.   360   n.   4   c.p.c.)   ed   ascrive   alla decisione violazione dell’art.   5   L.   604/66   ed   omessa motivazione, evidenziandone la totale assenza con riguardo a fatti controversi e decisivi per il giudizio, tra  i  quali l’avere   prestato  cure  alla propria   madre in data 11.4.2008,  non    potendo ritenersi che non vi sia stata contestazione della veridicità dei fatti contestati.

Con il quinto motivo, il ricorrente si duole della violazione degli artt. 1 L. 604/66, 2119 e 2106 c. c. e rileva ancora la nullità della  sentenza,    ex   art.   156     e    161      c.p.c.    oltre che   l’omissione od insufficienza della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo che la contestazione relativa a fattispecie analoga a quella di abuso di congedo parentale non era in linea con i principi in materia di proporzionalità del licenziamento disciplinare ed alla valutazione della condotta secondo i criteri applicativi di norme elastiche, da condursi con giudizio di valore adeguato al contesto storico sociale. Assume che il giudizio della Cassazione deve  ritenersi esteso alla sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa, con valutazione di un contegno che nelle finalità del permesso contempli anche l’esigenza dalla persona    che assiste di  avere ulteriore occasione di riposo o di stacco e ciò anche nella prospettiva di un giudizio sulla proporzionalità della sanzione.

Il ricorso è infondato.

Il primo motivo deve essere disatteso stante quanto ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alla portata delle disposizioni (artt. 2 e 3 della legge n. 300 del 1970), che delimitano – a tutela della libertà e dignità del lavoratore, in coerenza con disposizioni e principi costituzionali – la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi – e cioè per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art. 2) e di vigilanza dell’attività lavorativa (art. 3) -, ma non precludono il potere dell’imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti (quale, nella specie, un’agenzia investigativa) diversi dalla guardie particolari giurate per la tutela del patrimonio aziendale, né, rispettivamente, di controllare l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti,   ai sensi degli artt. 2086  e 2104 cod.  civ., direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica. Ciò non esclude che il controllo delle guardie particolari giurate, o di un’agenzia investigativa, non possa riguardare, in nessun caso,   né l’adempimento, né   l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del   lavoratore   di prestare la propria opera, essendo l’inadempimento stesso riconducibile, come  l’adempimento, all’attività lavorativa, che è sottratta alla suddetta vigilanza, ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione (cfr. , in tali termini, Cass. 7 giugno 2003,  n. 9167).     Tale   principio  è stato ribadito  ulteriormente,    affermandosi  che le dette agenzie per operare lecitamente non devono sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata, dall’art. 3 dello Statuto, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori, restando giustificato  l’intervento in  questione  non   solo per   l’avvenuta             perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (v. Cass. 14 febbraio 2011, n. 3590). Né a ciò ostano sia il principio di buona fede sia il divieto di cui all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, ben potendo il datore di lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d’opera tenuto ad operare diligentemente per tutto il corso del rapporto di lavoro (cfr. Cass. 10 luglio 2009 n. 16196).

Nel caso considerato il controllo finalizzato all’accertamento dell’utilizzo improprio dei permessi ex art. 33 L. 104/92 (suscettibile di rilevanza anche penale) non ha riguardato l’adempimento della prestazione lavorativa, essendo stato   effettuato al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione  principale   di rendere la  prestazione   lavorativa. Deve,  pertanto, ritenersi che la decisione impugnata sia conforme ai principi sanciti in materia ed in linea con gli orientamenti giurisprudenziali richiamati.

Quanto al secondo motivo di ricorso, che evidenzia la nullità della decisione per avere superato, omettendo ogni motivazione al riguardo, quanto affermato nel capo della sentenza di primo grado con riguardo alla mancanza di un  atto    di incarico  conforme alle specifiche autorizzazioni del Garante per la protezione dei dati personali, occorre considerare che in realtà l’affermazione, costituendo un mero inciso di motivazione, reso ad abundantiam, non necessitava di espressa impugnazione, e quand’anche si ritenesse diversamente, la fattispecie implicava il coinvolgimento di dati personali non sensibili e chiaramente pertinenti rispetto allo scopo perseguito dalla società che, come sopra detto, era del tutto rispettoso delle norme dello Statuto poste a tutela   del lavoratore. Non si poneva, pertanto, una questione di  acquiescenza ad un capo di decisione autonomo, idoneo anche da solo a sorreggere la decisione, sicché l’asserita violazione dell’art. 342 c.p.c. risulta, in definitiva, destituita di giuridico fondamento.

Il   terzo   motivo   è ugualmente infondato. Nella prima   parte   della censura si assume che le circostanze riferite dalle testi F. e V. sarebbero  le    stesse di cui all’accertamento      investigativo, sicché sostanzialmente non vi era stato il sospetto ingenerato da circostanze preventivamente acquisite da tali testi, ma il datore avrebbe affidato il mandato all’agenzia a scopo meramente esplorativo. La censura mira in   tale maniera     a   sollecitare   una non   consentita   valutazione     del merito, in contrasto con l’insegnamento di questa Corte, secondo cui il ricorso per cassazione, con il quale si facciano  valere     vizi   della     motivazione      della   sentenza,       deve      contenere     la precisa indicazione di carenze o di lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione (o il capo di essa) censurata, ovvero la specificazione di illogicità, o ancora la mancanza di coerenza fra   le   varie   ragioni    esposte,    e   quindi   l’assoluta    incompatibilità razionale       degli     argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi, mentre non può farsi valere il contrasto dell’apprezzamento dei fatti   compiuto dal giudice di   merito   con     il     convincimento e con      le   tesi della    parte, poiché, diversamente opinando, il motivo di ricorso di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. finirebbe per risolversi in una richiesta di sindacato del giudice di legittimità sulle valutazioni riservate al giudice di merito (v. tra le altre, Cass. 5 marzo 2007 n. 5066, Cass. 5274/2007 e, precedentemente, Cass. 15693/2004). La seconda parte della censura verte, invece, sulla ritenuta incapacità a deporre del teste M., ma in primo luogo deve rilevarsi che nessun accenno viene fatto ali termini ed ai modi in cui una tale eccezione era stata tempestivamente sollevata nella fase del merito. Vero è, poi, che ove la capacità a deporre del teste non possa essere messa in discussione per non essere stata la relativa questione tempestivamente sollevata, il giudice del merito non è esonerato dal potere – dovere di esaminare l’intrinseca attendibilità di detto testimone, specialmente in caso di contrasto tra le risultanze di prove diverse, e legittimamente può tener conto dell’interesse del teste all’esito del giudizio, anche là dove tale interesse non sia formalmente tale da legittimare la sua partecipazione allo stesso, (cfr. Cass. 18 marzo 2003 n.  3956).   Nel    caso   considerato non  si ravvisano, tuttavia, errori di valutazione idonei a legittimare la censura come prospettata anche con riguardo al profilo dell’attendibilità delle deposizioni acquisite, essendo  state le  testi di riferimento legittimamente escusse sulla base dell’indicazione di conoscenza dei   fatti ad  esse attribuita.

Il quarto motivo solleva una critica avulsa dalle risultanze processuali laddove si contesta l’iter argomentativo in relazione alla circostanza che la contestazione da parte del ricorrente vi era stata anche con riguardo all’effettivo verificarsi dei fatti   contestati.   Ed invero,   posta   la   rilevanza probatoria   attribuibile   per   quanto   sopra   detto   ai   risultati   dell’investigazione, non   rilevano circostanze ulteriori riferite alla assistenza comunque prestata alla madre dal N. prima di partire per il week end, permanendo l’abuso del diritto connesso all’utilizzo improprio del permesso ex art. 33 L. 104/92. Ove l’esercizio del diritto soggettivo non si ricolleghi alla attuazione di un potere assoluto e imprescindibile, ma presupponga un’autonomia comunque collegata alla   cura  di                interessi, soprattutto ove si tratti – come nella specie – di interessi familiari tutelati nel contempo nell’ambito del rapporto privato e nell’ambito del rapporto con l’ente pubblico di previdenza, il non esercizio o l’esercizio secondo criteri diversi da quelli richiesti dalla natura della funzione può considerarsi abuso in ordine a quel potere pure riconosciuto dall’ordinamento. L’abuso del diritto, così inteso, può dunque avvenire sotto forme diverse, a seconda del rapporto cui esso inerisce, sicché, con riferimento al caso di specie, rileva la condotta contraria alla buona fede, o comunque lesiva della buona fede altrui, nei confronti del datore di lavoro, che in presenza di un abuso del diritto al permesso si vede privato ingiustamente della prestazione lavorativa del dipendente  e   sopporta      comunque una  lesione (la  cui   gravità va    valutata in  concreto) dell’affidamento da lui riposto nel medesimo, mentre rileva l’indebita percezione dell’indennità e lo sviamento   dell’intervento   assistenziale nei   confronti    dell’ente di   previdenza   erogatore    del trattamento economico.   In base al descritto criterio della funzione, deve ritenersi  verificato  un abuso del diritto   potestativo allorché il diritto venga esercitato, come nella specie, non  per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività. La condotta del ricorrente si è posta in contrasto con la finalità della norma su richiamata, e pertanto la sua connotazione di abuso del diritto e la idoneità, in forza del disvalore sociale alla stessa attribuibile, a ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario correttamente sono state ritenute dal giudice del gravame capaci di integrare il comportamento posto dal datore a fondamento della sanzione disciplinare.

Il   quinto motivo   verte   sulla correttezza   del giudizio di   proporzionalità espresso   dalla Corte territoriale con riguardo alla condotta del N.. In ordine ai criteri che il giudice deve applicare per valutare la   sussistenza o   meno di   una giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza è pervenuta a risultati sostanzialmente univoci, affermando ripetutamente (come ripercorso in Cass., n. 5095 del 2011 e da ultimo ribadito da Cass. 26.4.2012 n. 6498) che, per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare di quello fiduciario,     occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva   dei medesimi,   alle   circostanze   nelle quali sono   stati   commessi   ed   all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare. È stato, altresì, precisato (Cass.,   n. 25743 del 2007)   che il giudizio   di     proporzionalità   o adeguatezza     della   sanzione dell’illecito commesso   –   istituzionalmente rimesso   al    giudice    di      merito –   si    sostanzia      nella valutazione        della gravità   dell’inadempimento    imputato      al lavoratore   in relazione   al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale impedimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della  massima    sanzione   disciplinare   risulta   giustificata   soltanto   in   presenza    di    un   notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.). In tema di ambito dell’apprezzamento riservato al giudice del merito,  è  stato condivisibilmente affermato (cfr. fra le altre, Cass. n. 8254 del 2004 e, da ultimo Cass. 6498/2012 cit.) che la giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consente la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto, è una nozione che la legge, allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel                tempo,       configura       con        una      disposizione       (ascrivibile           alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modello generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. A sua volta, Cass. n. 9266 del 2005 ha ulteriormente precisato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c., (norma c.d. elastica)   compiuta dal   giudice di   merito – ai   fini della individuazione della giusta causa  di  licenziamento – mediante riferimento alla “coscienza generale”,  è    sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto   giudizio rispetto   agli “standards”, conformi  ai    valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale.

Al riguardo deve rilevarsi che la decisione impugnata dal lavoratore sotto tale profilo appare rispettosa dei principi  di diritto enunciati   in    materia  da questa Corte, in quanto  il giudice dal gravame ha dato conto delle ragioni poste a fondamento della stessa, valorizzando, ai fini della valutazione della gravità della condotta,  non solo  e non tanto  l’allontanamento temporaneo dall’abitazione materna “quanto il fatto che N. nel giorno del permesso ex art. 33 chiesto per la giornata di venerdì 11 aprile, alle 7,55 sia partito con amici e valigia al seguito, così mettendo fra sé e la finalità di assistenza del permesso una distanza e una previsione di rientro non prossimo che rendono del tutto evidente che il permesso …. è stato utilizzato per altra finalità, che la legge garantisce con l’apposito istituti delle ferie”.    In tale  modo il   Nulli –  come condivisibilmente osservato dal giudice del merito – ha violato, attraverso l’abuso del relativo diritto,   la finalità assistenziale allo stesso connessa e la condotta posta in essere è stata, pertanto, coerentemente ritenuta capace di integrare anche sotto il profilo dell’elemento intenzionale un comportamento idoneo   alla    ravvisabilità   della    giusta causa del   recesso,        sia perché le   eventuali      convinzioni personali del ricorrente di potere fare affidamento in una prassi consolidata o nella collaborazione di una badante sono dei tutto irrilevanti in    presenza di   comportamento che ha  compromesso irrimediabilmente il   vincolo fiduciario, sia   perché   la   sospensione dell’attività   lavorativa   era consentita, come chiarito in sentenza, solo per la finalità assistenziale garantita dal permesso.

Peraltro, deve anche aversi riguardo al fatto che, come, affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, l’intensità della fiducia richiesta è differenziata a seconda della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione parti, dell’oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono e che il fatto deve valutarsi nella sua portata oggettiva e soggettiva, attribuendo rilievo determinante alla potenzialità del medesimo   a   porre   in dubbio la   futura correttezza dell’adempimento (cfr., tra le altre, Cass. 10.6.2005 n. 12263).

Per tutte le esposte considerazioni, il ricorso deve essere respinto.

Le spese del presente giudizio, in forza del principio della soccombenza, cedono a carico del ricorrente, e vanno liquidate nella misura di cui al dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 100,00 per esborsi ed in euro 3000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

 

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